I dati pubblicati ieri in merito all’inflazione in Spagna e Germania confermano una volta di più i danni “strutturali” che la guerra sta provocando sulle varie economie.
Già le preoccupazioni in fatto di aumento dei prezzi erano note, al punto da giustificare l’intervento dei “policy makers”, ma l’accelerazione, soprattutto dei prezzi delle materie prime (e non solo quelle dell’energia, pensiamo banalmente al grano o al mais o anche a materie come il palladio, fondamentali nella produzione dei microchips), avvenuta nell’ultimo mese ha impresso rialzi quasi incontrollati.
In Spagna l’inflazione sfiora il 10% (9,8): per ritrovare un livello simile bisogna tornare al 1985. In Germania ormai siamo al 7,3%, cifra mai raggiunta dalla riunificazione. Per domani è atteso il dato dell’area UE, con aspettative poco rassicuranti.
Ormai è certo che più lunga sarà la guerra e maggiori saranno le ricadute, in Europa, sulla stabilità economica e finanziaria. La stessa Christine Lagarde, Presidente della BCE, che sin qui aveva ostentato una certa sicurezza, appena incrinata nell’ultima riunione del Comitato della BCE di qualche settimana fa, appare oggi ben più preoccupata, evidenziando l’impossibilità di determinare le effettive conseguenze della guerra, ma confermando la profonda incertezza della fase che stiamo vivendo, confermando che nessuno, al momento, è in grado di stabilire la durata delle ricadute a livello economico.
Ovvio che in un contesto simile, la Banca Centrale europea, sulla falsariga di quella americana, potrebbe ritrovarsi nella situazione di assumere decisioni di maggior rigore, con l’obiettivo di fermare l’ascesa dei prezzi. Va ricordato, peraltro, ancora una volta, la diversa situazione in cui si trovano le 2 maggiori economie al mondo. Infatti, in Europa l’inflazione è dovuta in gran parte all’aumento dei prezzi dell’energia: si calcola che dal 2018 l’aumento “aggiuntivo” dell’inflazione (almeno 3,9 punti medi) per 2/3 sia dovuto allo shock dei prezzi energetici, mentre un altro 0,8 è dato dall’aumento dei prezzi alimentari.
Ben diversa la situazione negli USA, dove solo 1/3 dell’aumento è dovuto ai lievitati costi dell’energia (gli USA sono il 2° produttore al mondo di petrolio e tra i maggiori per il gas), con invece una componente piuttosto rilevante dovuta all’incremento dei prezzi delle automobili. A questi fattori, poi, si deve aggiungere il “trasferimento” dell’inflazione sui salari, che negli USA sta già avvenendo, mentre da noi, almeno per il momento, non si è ancora manifestato. Di conseguenza, anche l’effetto delle politiche monetarie è diverso: là dove, come negli Stati Uniti, l’inflazione è data, almeno in buona parte, dai consumi (e quindi l’inflazione è da domanda), il maggior rigore monetario produce una riduzione della velocità di trasmissione del denaro (che potrebbe, a breve, diventare anche riduzione della massa monetaria), con un impatto certo sull’inflazione (che si ridurrebbe). Nell’eurozona, invece, l’inflazione (per il momento) è da offerta, cosa che riduce l’efficacia delle politiche monetarie “rigoriste”: per quanto il costo del denaro aumenti, non è quello che può influenzare il prezzo delle materie prime, ben più sensibili alle vicende geo-politiche, come stiamo sperimentando, o alle difficoltà nella “catena di trasmissione”.
A tal proposito, dopo 18 mesi consecutivi di rialzi, finalmente arriva una buona notizia: l’Arera (Autorità per l’energia) ieri ha ufficialmente comunicato che, per il prossimo trimestre, almeno per i contratti di fornitura alle famiglie con contratti di maggior tutela, avremo una diminuzione dei prezzi di circa il 10%.
Sta per chiudersi, per i mercati del Far East, una giornata negativamente intonata: il Nikkei arretra dello 0,73%, Shanghai contiene la perdita allo 0,30% circa (nonostante gli indici PMI nei settori manufattiero e dei servizi siano scesi sotto la soglia di 50 punti), mentre peggio sta andando a Hong Kong, più influenzato dal settore tecnologico, in calo di oltre l’1%.
Futures sopra la pari a Wall Street, mentre da questa parte dell’Oceano mostrano segni di “svogliatezza”.
In forte arretramento tutte le materie prime: il petrolio (WTI) perde circa il 5%, arretrando a $ 102. Il gas naturale scambia a $ 5,536 (- 1,37%), mentre l’oro, nonostante la pace al momento appaia ancora lontana, perde lo 0,50% ($ 1.930).
Spread a 147 bp, con i BTP che ieri hanno sfiorato il 2,20%.
Treasury a 2,33% (2 bp).
Balzo dell’€, che si riporta a 1,1157 nei confronti del $.
Bitcoin “attraccato” ai $ 47.000 (47.114, – 0,60%).
Ps: non basta “cambiare” nome per mettersi alle spalle i problemi. Alitalia, schiacciata dai debiti e da gestioni improvvide, ha lasciato il posto a ITA. Da subito è apparso chiaro che la strada sarebbe stata in salita (o meglio, “il volo turbolento”). Già la società ha “risucchiato” oltre € 720 ML di denaro pubblico, a cui se ne sono aggiunti altri € 400 ML in questi giorni. Da mesi, oramai, sono in corso trattative con altri vettori (e non solo) per farli entrare nel Capitale Sociale, garantendo un’ulteriore capitalizzazione. Intanto ieri si sono dimessi 6 consiglieri (sui 9 che siedono in CdA). I viaggiatori sono pregati di allacciarsi le cinture.